C'era una volta Paisā

Il linguaggio č sempre lo specchio della societā che lo produce: osservarne le trasformazioni ci fa aprire gli occhi su come stiamo cambiando

 di Anna Petrazzuolo

 

 

«La guerra passò rapida attraverso le regioni dell’Italia meridionale. L’8 settembre i cannoni della flotta alleata erano puntati contro Napoli. Infranta la resistenza tedesca a Salerno, gli anglo-americani sbarcarono sulla costa amalfitana e, alcune settimane dopo, Napoli era liberata. Il porto di questa città diveniva il più importante centro logistico della guerra in Italia». È la voce narrante fuori campo di Giulio Panicali a introdurre l’episodio napoletano di Paisà, la pellicola di Roberto Rossellini che in questi giorni compie settant’anni (uscì nelle sale il 10 dicembre 1946). Realizzato con scarsi mezzi tecnici e attori per lo più non professionisti, il film nasceva dall’ambizioso intento di raccontare l’avanzata degli Alleati lungo la penisola durante la Seconda Guerra Mondiale. Un racconto strutturato per segmenti (sei in tutto) a cui, oltre allo stesso Rossellini, collaborarono Federico Fellini, Sergio Amidei e Vasco Pratolini. Paradossalmente, nonostante la frammentarietà narrativa, Paisà restituiva un’immagine unitaria dell’Italia di allora e del suo popolo, che da nord a sud si ritrovava lacerato dalla miseria e dalla lotta partigiana. A cominciare dal titolo, una certa aura di napoletanità contorna quest’opera considerata tra i capolavori del Neorealismo. Del resto, alla nostra regione il cinema di Rossellini era fortemente agganciato, per geografia, per cultura e per linguaggio. In quell’addentellarsi tra lavoro e affetti che fu una costante della sua vita, il regista romano fece di Maiori il fondale sia dei suoi amori che dei suoi film. Nella Torre Normanna di Maiori fu ambientato il frammento siciliano di Paisà e sulla spiaggia di Maiori fu reclutato il piccolo Alfonsino, lo scugnizzo che per fame ruba le scarpe al soldato di colore Joe, in una Napoli ridotta a macerie e della quale tuttavia si riconoscono il porto con il Vesuvio sullo sfondo, il campanile che si erge su piazza del Carmine, Porta Capuana, il teatro San Carlino e le grotte tufacee di Mergellina. Eppure, di questo film che tanto le appartiene, dopo settant’anni Napoli sembra essersi dimenticata. Non vi sono celebrazioni in città né proiezioni in sale e cineforum. Oggi Paisà è visto forse come inutile fardello in un momento in cui il concetto stesso espresso nel titolo appare superato. Quasi più nessuno, infatti, usa questo appellativo che sottintende una fratellanza in termini di condivisione e solidarietà, di generosità gratuita. Guadagna terreno, in sua vece, l’inquietante “fratm”, scritto e pronunciato così, senza vocali, senza dolcezza in una successione di suoni aspri e chiocci, gli stessi che Dante accatasta nell’Inferno insieme ai dannati. Il termine, diffuso al punto da essere finito nei testi di rap napoletano di quart’ordine e nelle fiction che riproducono le gesta della malavita organizzata, allude sì a una fratellanza ma codificata come legame di sangue, patto noir che vincola a una rete maledetta dalla quale non si può più uscire.

 

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