La nave che mai partì

Il flop dell'editoria e del suo indotto nella capitale del Mezzogiorno

 di Anna Petrazzuolo

 

La decisione di Elisabetta Sgarbi di lasciare la direzione editoriale della Bompiani per fondare un proprio marchio, ha negli ultimi giorni alimentato molte chiacchiere e qualche riflessione. I critici di fede nominalista hanno pensato che andasse subito sottolineato il paradosso implicito, secondo il mito, nella vicenda della nave (sempre uguale a se stessa o diversa?) che salpò al comando di Teseo, l’eroe simbolo della vittoria della ragione sull’irrazionalità bestiale del Minotauro. Attingere alla mitologia, sempre carica di spunti per inanellare metafore e lanciarsi nell’ermeneutica, non deve però oscurare le altre interpretazioni possibili e gli altri significati presenti sopra e sotto la traccia degli eventi. Val la pena, allora, ricordare che La nave di Teseo è il titolo dello stranissimo romanzo che Jeffrey Jacob Abrams ha pubblicato nel 2014 e che in Italia è stato tradotto da Rizzoli Lizard. Lui – giusto per inquadrarlo compiutamente – è il creatore della serie televisiva Alias e il co-autore di Lost; ha diretto il film Mission: Impossible III, la versione cinematografica di Star Trek e Super 8. Insomma, un asso della fantascienza, un visionario di grande successo. Il libro (lo si può in parte vedere qui) è un oggetto anch’esso da fantascienza, a più dimensioni, stampato su carta antichizzata ad arte, ricco di note, immagini, scritte a margine e reperti che il lettore trova infilati tra le pagine (una cartolina dal Brasile, una mappa, un foglio dattiloscritto, una lettera). Per farla breve, uno stupefacente intreccio di metascrittura e intertestualità, proprio i due cardini su cui si regge e si destreggia da sempre la narrativa di Umberto Eco, tra i soci più entusiasti della Sgarbi imprenditrice e suo sostenitore sin dal primo momento. Coincidenze, si dirà.

 

Altri, dell’audace impresa, hanno voluto rimarcare soprattutto i contorni geografici per dire che il varo di una siffatta nave dotata di cotanto equipaggio, poteva avvenire soltanto nel profondo Nord. La “prova del 9” di tale tesi sarebbe rappresentata dal caso di Napoli (e della Campania tutta), dove di fatto storicamente manca un grande editore. Di piccoli, invece, ve ne sono a bizzeffe ed è sintomatico che nessuno di loro abbia in queste ore risposto a quella che voleva forse essere una provocazione, uno spintone per scuotere il corpo irrigidito (cfr. rigor mortis) dell’editoria partenopea. E non si tratta semplicemente di capitali da investire, impossibili da reperire. A Napoli - che è la mia città - manca una visione in grande del lavoro editoriale, manca l’idea del lavoro editoriale come comparto produttivo da costruire e far crescere sul presupposto di professionalità ben precise e l’una distinta dall’altra ma l’una al fianco dell’altra all’interno di quel magnifico laboratorio di idee e creatività che è la Redazione. A Napoli le case editrici pullulano di figure ibride che si muovono in limine e che fanno “un po’ di tutto” (espressione che ha un’accezione positiva solo se ci si trova davanti a un succulento buffet). A costoro va ricordato che improvvisarsi è dannoso, improduttivo. A Napoli anche il direttore editoriale - ove ne sia contemplata la presenza - è in genere una figura confusa che non possiede una preparazione specifica né la stoffa del capitano d’impresa; l’unico fiuto che possa vantare è quello per il proprio minuscolo particulare. Tanto provincialismo si è, alla fine, abbattuto su via Port’Alba, che a Napoli per tradizione è la strada dei libri, asse portante di un tempo e decaduta oggi per effetto della gravità. Coincidenze, si dirà.

 

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