Un diamante nella mischia

Finalista al Premio Campiello 2015, "Cade la terra" è un romanzo che brilla di letteratura raccontando i vinti nell'epopea del '900. La mia recensione per la Repubblica Napoli

di Anna Petrazzuolo

 

 

All’inizio di questa storia c’è il vezzo di una bambina cresciuta tra i dirupi del Cilento montuoso: “Immersa com’ero nel silenzio, varcavo spesso la soglia di una casa abbandonata e immaginavo il ritorno di quelli che l’avevano abitata. Quasi sempre cambiavo loro i destini”. Spiega così Carmen Pellegrino l’antefatto che l’ha portata alla stesura del suo primo romanzo, Cade la terra (Giunti). Sono voci lontane quelle di Alento, desolato borgo che soccombe alla legge di gravità franando un po’ per volta e trascinando, insieme alle pietre, figure polverose di illusi e falliti, figli tutti di una Natura matrigna che colpisce alle spalle. L’asse narrativo si regge su questo canto della marginalità in cui finiscono come dentro a un pozzo gli ideali di Cola Forti, la delusione di sua figlia Libera e sventurata, la vana speranza di Giacinto, l’angoscia di Lucia Parisi, l’impotenza di suo padre, la solitudine di Maccabeo. Le loro vite in bianco e nero raccontano storie di esclusione e di ingiustizia nell’attesa di un avvenire che si annunciava roboante ma che poi arriva a mani vuote, venendo meno alle promesse di riscatto sociale e di uguaglianza. È la conferma che il movimento della Storia segue ritmi difformi lasciando intere fasce di popolazione in balia dell’arretratezza e della soggezione proprio mentre altrove trionfano progresso e libertà. Ma nel disegno letterario finemente condotto dalla Pellegrino, l’epopea dei vinti prevede una deroga che è sospensione del tempo e istituzione di un gioco teatralizzato che ogni anno si ripete in seno alla casa dell’olmo, la grande madre che accoglie e risarcisce. È qui che i morti ricompaiono e sfilano intorno alla tavola apparecchiata per la cena, prodiga di regali. Ad allestire la rappresentazione del ritorno è Estella. A lei l’io autoriale passa il testimone del rito che livella i destini. Ex monaca in fuga dalla famiglia e da Dio, Estella è la sacerdotessa senza radici che trova il suo punto fermo paradossalmente nella precarietà della casa in rovina, e vi si aggrappa come a un consanguineo antropomorfizzandola e rifiutando di mettersi in salvo. Non cede, infatti, alle lusinghe di Marcello, che della messa in scena non comprende il senso e continua a pretendere Estella tutta per sé. Antagonisti più che protagonisti, entrambi si aggirano tra le macerie, sopravvissuti ma divisi, due desinenze incompatibili. Sullo sfondo, il Novecento, secolo breve che ha avuto fretta di avanzare e nella fretta ha sacrificato i deboli. Nel genogramma della Pellegrino, studiosa sensibile alle vicende dei dimenticati, non poteva che esserci questo romanzo, metastorico e ricco di richiami intertestuali. La sua scrittura verticale interseca la processione dei morti e, pur senza mai allentare la tensione tragica, ci insegna il linguaggio della riconciliazione. Perché se è vero che nulla è più ingiusto della vita, è anche vero che c’è sempre una possibilità di risarcimento nella fine. Del resto, chi può dire cosa sia la fine?

 

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