Tutto quello che sull'antica Pompei ancora non sapevate

Intervista ad Alberto Angela realizzata per il quotidiano la Repubblica

di Anna Petrazzuolo

 

Con I tre giorni di Pompei (Rizzoli), Alberto Angela ricostruisce l’eruzione del Vesuvio in forma di reportage, ora per ora, sfatando molti falsi miti e mettendoci davanti personaggi realmente esistiti e sopravvissuti alla tragedia.

Come è maturato questo cambio di prospettiva?
Sull’antica Pompei si scrive tanto, e spesso si tratta di libri ben fatti. Però la si considera sempre dal punto di vista delle vittime. Io invece, dopo anni di sopralluoghi, sono andato a cercare le persone vive e sono riuscito a trovare sette sopravvissuti, con nomi e cognomi. Attraverso di loro ho potuto scoprire una Pompei diversa, più veritiera.

 

Il suo libro fa chiarezza su alcune circostanze che sembrano incredibili. Per esempio, come mai a Pompei nessuno sapeva di vivere accanto a un vulcano-killer?
È uno dei miti da sfatare. In realtà, all’epoca a Pompei il Vesuvio non era visibile come lo è oggi, era basso. Il cono che noi vediamo si è formato solo successivamente. Un altro mito che non corrisponde al vero riguarda la lava: a Pompei così come a Ercolano non è arrivata una singola goccia di lava. Soltanto lapilli e spaventose grandinate di pomici.

 

Un elemento rilevante del suo racconto riguarda la datazione: invece di uniformarsi alla tesi maggiormente accreditata, lei sostiene l’ipotesi “autunnale” che sposta l’eruzione del 79 d.C. dal 24 agosto al 24 ottobre. Perché?
Sono diversi gli studiosi che collocano l’eruzione del Vesuvio in autunno anziché in estate, e ciò sulla base di precisi indizi. In molte delle case sepolte sono stati, infatti, ritrovati bracieri e frutti tipicamente autunnali come castagne, melegrane e fichi secchi. Inoltre, i dolia, contenitori nei quali a Pompei i romani facevano maturare il vino, erano già stati chiusi e sigillati, e questo vuol dire che la vendemmia si era ormai conclusa. La data del 24 agosto deriverebbe da un equivoco, da una errata trascrizione della lettera di Plinio il Giovane ad opera degli amanuensi.

 

Salotti mondani, uomini d’affari, donne influenti e tanta politica: l’antica Pompei, in fondo, non era molto diversa dall’Italia di oggi.
Era una società estremamente moderna che aveva un’organizzazione territoriale simile a quella delle nostre città, con aree distinte: il quartiere residenziale, la zona degli affari, quella delle botteghe artigianali. Anche la struttura sociale era articolata come la nostra. A Pompei vivevano banchieri, imprenditori, soubrette, mendicanti; e tutti partecipavano in qualche modo alla vita politica sostenendo questo o quel candidato. Lo deduciamo dai graffiti rinvenuti sui muri, dove insieme agli slogan elettorali si leggono messaggi d’amore, invettive, citazioni dotte. Era evidentemente una società con un alto tasso di alfabetizzazione. Era anche una società globalizzata.

 

Il sito archeologico di Pompei è stato a lungo come una balena arenata e dimenticata. Da studioso, come giudica il Grande Progetto con cui governo italiano e Ue mirano a restituirgli dignità e decoro?
Pompei è un sito unico al mondo. Mentre tutti gli altri (dalle Piramidi ai siti maya) sono stati abbandonati e poi riscoperti dagli archeologi quando ormai erano spogliati, Pompei è stata sepolta viva, come congelata, e tutto è rimasto intatto. Per questo abbiamo il dovere di fare qualunque cosa per averne cura affinché le generazioni del futuro possano guardare Pompei esattamente come la guardiamo noi oggi. Nel mio piccolo, insieme all’editore rinuncio a una parte dei proventi del libro per devolverli in favore del restauro di un affresco che si trova nella Casa di Adone ferito. Perché Pompei è qualcosa che appartiene a tutti noi.

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