Restare o partire? Il mondo del lavoro visto da Antonio Menna

Intervista al blogger che è divenuto un caso editoriale. Il suo segreto? Raccontare storie che, seppure attraverso il filtro dell'ironia, siano saldamente ancorate alla realtà

 

di Anna Petrazzuolo

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo due romanzi di genere, con Se Steve Jobs fosse nato a Napoli e Tre terroni a zonzo è approdato a una narrativa di taglio più giornalistico che fotografa il rapporto distorto tra giovani e mondo del lavoro. È stato un passaggio naturale?
È capitato, in verità. Ho pubblicato un post sul mio blog, che conteneva un breve racconto. Ha avuto un grosso successo di visualizzazioni e condivisioni e così è nata l'idea di farne un libro. Un piccolo romanzo atipico: una storia completamente inventata ma saldamente ancorata alla realtà. Un tentativo anche di trovare una strada diversa per raccontare l'attualità. Mescolare i generi, partire dalla narrativa, dall'indagine psicologica, familiare, dal racconto minimo, per dire di più, o da un'altra angolatura, su alcune questioni sociali. L'esperimento del libro è riuscito così bene che abbiamo pensato di fare il bis, con un altro libro con le stesse caratteristiche, ma focalizzato su un altro tema. Anche il secondo sta avendo un buon successo, segno che, forse, questa mescolanza di storie personali e questioni sociali, condotte con un taglio ironico, ma non consolatorio, incontra il consenso dei lettori.


Già a 13 anni decise che avrebbe fatto il giornalista e lo scrittore. Quanto conta la determinazione per raggiungere i propri obiettivi?
Io sostengo che sia del tutto illusoria l'idea che se vuoi una cosa, la ottieni. È un falso mito, alimentato da una insopportabile retorica dell'ottimismo e della speranza. La verità è un'altra: la possibilità di realizzare le nostre ambizioni, soprattutto in Italia, è fortemente condizionata da fattori esterni. La famiglia, l'appartenenza, il censo, il rango economico, le relazioni. Si punta poco sul talento e sul valore della persona. Se non c'è spazio per il merito, non c'è neppure per la determinazione. Poi, ovviamente, chi si arrende in partenza, e non gioca la sua partita, la perde a tavolino, ed è sbagliato. Quindi conta lottare, impegnarsi, e stare nelle cose. Ma senza illusioni.


Quanto conta, invece, la flessibilità?
Più che la flessibilità conta, secondo me, studiare, apprendere, mettersi sempre in discussione. Io mi sono affacciato al lavoro giornalistico da giovanissimo, appena finite le superiori, alla fine degli anni Ottanta. E c'era ancora il piombo nelle tipografie, non c'era la mail, la rete, meno che mai facebook. Ho attraversato tutti i cambiamenti con entusiasmo e alla fine sono riuscito a starci dentro, arrivando poi a fare centinaia di migliaia di visualizzazioni col mio blog. Sono transitato da un mondo all'altro senza supponenza e con umiltà, cercando di capire sempre le chiavi, mettendo in discussione il mio linguaggio, lo stile, l'approccio, il ritmo, il tempo. Bisogna avere l'umiltà dell'apprendimento continuo.


È davvero così profondo il gap di opportunità e spazi lavorativi tra Napoli e il resto del mondo?
Dipende, ovviamente, da quali parti del mondo prendiamo a paragone. Ci sono posti peggiori. Ma ci sono, in occidente, nelle economie avanzate, luoghi dove gli spazi sono più ampi. Non solo perché più dinamici economicamente, ma perché più aperti culturalmente e maggiormente protesi all'idea del merito e del sistema. Noi non facciamo quasi mai comunità. Se uno di noi ha successo, l'obiettivo di tutti gli altri non è capire il perché, e magari provare a superarci, ma demolire, inquinare il successo, fare qualunque cosa per uccidere l'altro. L'idea è che, se non ci riesco io, non ci devi riuscire nemmeno tu. Così si dura poco. 


Dove sono le colpe?
Sono ritardi strutturali, alimentati da una classe dirigente inadatta. Ma sono anche ritardi di comunità, con colpe collettive. Come dicevo non facciamo sistema, non siamo capaci di competizione sana, ma di rivalità invidiosa, tendiamo alla distruzione più che alla costruzione; cerchiamo costantemente la strada individuale e mai quella collettiva. Sembriamo allergici all'idea della rete e della organizzazione, che sono il motore di tutte le esperienze economiche e sociali vincenti.


Quali sono le reazioni dei lettori? Quella che più l’ha colpita?
In positivo, quella di una larga identificazione; segno, evidentemente, che i temi raccontati sono davvero esperienza ampia di molti. In negativo, una permalosità, a volte, ottusa della città di Napoli. Sembra che non si possa parlare dei problemi perché, se lo fai, diventi tu il problema. Si preferisce mettere la testa sotto la sabbia e fare finta che vada tutto bene. Chi rovina il quadretto è un nemico.


Cosa risponde a chi le rimprovera di raccontare la Napoli dei luoghi comuni?
Penso che chi dice questo non abbia letto a fondo i miei libri. Nelle mie storie ci sono sicuramente alcuni stereotipi ma ci sono anche figure che li sovvertono totalmente. I luoghi comuni, a volte, sono utili a costruire spazi riconoscibili, di identificazione. Non sono cose false, sono cose ovvie. Non bisogna abusarne, però. Io credo di averli dosati e di averli mescolati a figure di innovazione, moderne. Penso, per esempio, a Stefano Lavori, un ragazzo dei Quartieri Spagnoli che rispetta tutte le regole. Altro che stereotipo. È esattamente il rovesciamento  dello scugnizzo maneggione e furbo. Lui è un ragazzone ingenuo e geniale.


Cosa rappresenta per lei la scrittura?
Una grande passione, innanzitutto. Poi uno strumentario. Mi serve per orientarmi, per capire. O anche solo come colonna sonora. Amo la scrittura fondamentalmente da lettore. Da autore è una gran fatica, ma anche un momento di straordinaria esaltazione.


Ha già aperto il cantiere del prossimo libro?
La mente è un cantiere sempre aperto.


Una citazione da Tre terroni a zonzo che stamperebbe sulla sua T-shirt.
"Se vanno via tutti, qui chi rimane?" 
"Io, rimango io".


Grazie. 



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