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Autore di romanzi per Giunti e Sellerio, Athos Bigongiali ottiene il plauso del Premio Perelà con una raccolta di racconti improntati alla poetica del mito

di Anna Petrazzuolo
Come nasce questa raccolta?
Nasce dalla voglia di tornare a misurarmi col racconto breve. E quindi, per me, di tornare un po’ indietro nel tempo. Era come mi fossi dimenticato qualcosa negli anni addietro e dovevo provare a riprendermela. 
A quale dei racconti si sente più legato?
A quello intitolato “La vedova Zoltan”. Si svolge in gran parte all’interno di un cimitero, che è il luogo dove si onorano i morti. È qui che vive la vedova che due colleghi di un impiegato deceduto cercano per consegnarle i soldi di una colletta. Ma la vedova, pur avendone bisogno, rifiuterà quel danaro. È una zingara e al contrario di quello che i due pensano non accetta elemosine. Per orgoglio e contro i loro pregiudizi, rivelandosi così l’unico essere vivente capace di onorare i morti.
Che rapporto ha il Bigongiali lettore con la forma della narrazione breve?
Un rapporto di sfida. Come disse un grande scrittore di racconti, Julio Còrtazar, il romanzo può vincere ai punti l’incontro/scontro con il lettore, il racconto breve no. Il racconto deve vincere per ko., altri verdetti non sono ammessi.
Che Guevara, Sir Roger Casement, il clown tedesco deportato ad Auschwitz, Steve McQueen: i suoi libri sono spesso popolati da protagonisti famosi riproposti, però, con sguardo inusuale. Quale poetica la ispira?
La poetica del mito, cioè di ri-raccontare il già raccontato. Nei casi citati, le gesta già note ma anche quelle dimenticate o malintese e sempre attraverso la voce di persone inventate, comunque marginali rispetto alla notorietà dei personaggi narrati. Persone senza voce in capitolo, prima del racconto. Persone come noi prima che la letteratura facesse il miracolo di ridare loro voce.

Parallelamente, nelle sue pagine si registra la presenza di modelli antropologici presi dalla vita quotidiana, dal mondo della provincia in particolare. Riconosce alla letteratura una funzione sociologica e storiografica?
La parola ‘funzione’ è fuorviante. La letteratura non ha funzioni, altrimenti negherebbe se stessa. La letteratura racconta storie ma non se ne serve per fare storiografia o altro. Io mi ritengo una persona impegnata, attenta ai problemi della società che ci circonda, ma quando scrivo è come lo facessi stando sulla Luna. Non perché ho perduto la ragione, ma per tenerla a distanza, dando così più senso alle mie fantasticherie. Alle ragioni del cuore, quelle che la ragione non può comprendere.

 

Cosa le è rimasto della sua esperienza di ghost writer?
L’invisibilità. Quando si scrivono, come è capitato a me, articoli o discorsi per persone note e talvolta molto note il sentirsi invisibile è tutto. Loro firmano i pezzi o proclamano discorsi e tu a quel punto sei già da un’altra parte. Anzi: proprio non ci sei. È un bello spunto per un romanzo, no? E chissà che un giorno…
Che ruolo ha lo scrittore oggi?
Nella società, molto marginale. Ma ammiro gli scrittori che usano il proprio nome per lanciare allarmi e sostenere cause giuste, sociali e di diritti negati. Essendo attratto dalle cause perse, quando è capitato, non mi sono mai tirato indietro. È bello stare dalla parte dei perdenti.
Qualche anticipazione sul suo prossimo libro?
È un romanzo ambizioso. È il tentativo di raccontare gli anni che precedettero il ’68 dal punto di vista di due cinquantenni ignari di ciò che si stava preparando, pur avendo figli e vivendo situazioni che avrebbero dovuto aprire loro gli occhi e tendere le orecchie. Succederà?
Grazie.

  

 

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