Maria Rosaria Pugliese e l'impresa del romanzo

Intervista all'autrice di Pazienti smarriti, il libro che dopo il caloroso consenso dei lettori incassa la candidatura alla XVII edizione del Premio Domenico Rea.

di Anna Petrazzuolo

 

 

Quando è nato il progetto di Pazienti smarriti?
Mi era chiaro fin dall’inizio – dalla malattia di Ettore – di volere scrivere della malasanità, intesa come scarsa attenzione al paziente, mancato rispetto del malato, inadeguatezza dei servizi a rispondere al bisogno d’umanità di chi vive l’esperienza della malattia. A fronte dell’eccellenza della maggior parte dei dottori, e anche della disponibilità di alcuni operatori sanitari, le cose cui capitava di assistere erano inconcepibili: persone (anche infermieri) che fumavano vicino agli ammalati, mancanza del materiale più elementare, come il termometro e le siringhe. E poi l’irreperibilità dei medici nei fine settimana, attese lunghissime per le visite e gli interventi (mentre le patologie peggiorano), il paziente – sofferente e svestito – visitato in ambulatorio, con la porta aperta, alla faccia della privacy. Ma ciò che fece scattare la molla della scrittura fu l’episodio dello smarrimento di Ettore in ospedale. Smarrito come un pacco. Allora decisi che dovevo scrivere. Era un mio dovere farlo, anche se di fatto cominciai mesi dopo il tragico epilogo. Scrissi il racconto Pazienti Smarriti. Descrivevo, in maniera surreale, quanto era accaduto: un degente “sperduto” in un ospedale cittadino. Come titolarlo diversamente? Era l’unico nome possibile del racconto e del romanzo che ne scaturì. Al tempo stesso, il titolo allude al senso di spaesamento dell’ammalato quando si ritrova sradicato dal proprio ambiente, in un contesto sconosciuto, con l’incognita della malattia e la preoccupazione di non poter guarire. Questo tipo di smarrimento è soprattutto una richiesta d’aiuto psicologico.
 
Come hai gestito la componente autobiografica del romanzo?
Non senza una certa difficoltà iniziale, devo dire. Non avevo mai scritto della mia famiglia, di fatti così intimi. Sono una persona per natura molto riservata, per cui il pudore talvolta mi bloccava. Però i ricordi affioravano così nitidi, così intensi che mi sembrava un peccato stravolgerli. E poi nella scrittura, specie quando si narra di emozioni profonde, o si inventa tutto o si racconta fedelmente. Il lettore percepisce le mezze verità. Allora decisi di rispettare gli eventi e le persone, di tirarli fuori dal passato senza deformarli. E’ stato un lavoro di scavo talvolta doloroso, ma sempre onesto. Se poi questo tipo di scrittura sia stato o meno terapeutico, non saprei dire. Per me lo scrivere è sempre terapeutico.
Alla narrazione lineare hai preferito una scrittura che procede per digressioni temporali: quali reazioni hai inteso suscitare nel lettore?
La linea di demarcazione tra presente e passato non è mai netta, così come la vita non è divisa in compartimenti stagni. Il presente chiama continuamente il passato, per cui gli avvenimenti si mescolano tra di loro. Certo, durante la stesura del romanzo è stato necessario dare una scansione temporale agli eventi, soprattutto perché temevo di disorientare il lettore con i flashback. Le digressioni, gli stop and go, gli sguardi all’indietro nel tempo felice (anche con concessioni all’onirico, come ad esempio l’episodio della giostra), sono risultati funzionali, a mio avviso, alla narrazione, in quanto hanno alleggerito la storia principale di per sé abbastanza delicata. L’alternarsi di momenti leggeri ad altri decisamente drammatici, le sconfitte e i successi, gli amori e i lutti, la gioia e le lacrime: non è questo la vita?
Nel dialogo tra passato e presente emerge la fondamentale funzione che nel libro ha la memoria.
La memoria, personale e collettiva, è una risorsa alla quale continuamente - a volte anche inconsciamente - attingiamo. Lo dico spesso durante le presentazioni. Senza la memoria saremmo fantasmi, ombre prive di qualsiasi identità. Da sempre l’uomo va alla ricerca delle proprie radici, non soltanto biologiche. Nel passato remoto o recente, si cerca la spiegazione degli eventi, della realtà che ci circonda, l’evoluzione dei fatti. Anche quando si intende percorrere una nuova strada – e quindi lo sguardo è al futuro – rivedere criticamente il passato serve ad abbandonare cose che non servono più e a valorizzarne altre che erano già in preparazione. Senza la memoria, inchiodati ad un presente perpetuo, la nostra sarebbe una prospettiva monca. Memoria degli avvenimenti, ma anche dei luoghi, dei gesti, delle immagini, perfino di un certo linguaggio. Mi è capitato di sentirmi chiedere: “Dove si trova con precisione il Borgo delle Due Porte? Mi accompagni a visitarlo?” oppure “Sono del quartiere, ma non sapevo nulla del dazio borbonico e dell’iscrizione qui si paga per i regi censali”. E io sono felicissima che i lettori dicano queste cose perché vuol dire che il mio libro è testimone anche dei luoghi, della metamorfosi che essi hanno subito, perfino della toponomastica. In Pazienti Smarriti il richiamo al territorio è fortissimo. Dalla dea Mnemosine ai database, la scrittura è il mezzo più efficace per trasmettere la memoria, perché ovviamente la memoria non ha alcun futuro se non la si trasmette. Isabelle Allende, nella lectio magistralis tenuta a Trento il 15 maggio 2007, disse: “La scrittura per me è un disperato tentativo di preservare la memoria”. Lo è anche per me.

Benché tutto abbia inizio con una malattia, la storia che racconti è prima di ogni altra cosa una storia di sentimenti.
Pazienti smarriti è essenzialmente una storia di amore fraterno, quindi di sentimenti. Mentre scrivevo, la mia più grande preoccupazione era quella di scivolare, anche solo con una frase, nel patetico. E questo non lo volevo assolutamente. Come l’amico Francesco Costa spiega nella prefazione, il tema della perdita e del lutto avrebbe potuto dar vita ad un drammone strappalacrime, con l’inevitabile accumulo di scene strazianti. Ho aggirato questo ostacolo sia con i flashback sia con un lavoro certosino, ossessivo sulla parola, evitando attraverso sinonimi e perifrasi i termini tecnici o troppo crudi che rischiavano, in qualche modo, di ferire la sensibilità del lettore. Questa è stata la vera difficoltà nella stesura del romanzo: usare un linguaggio lieve parlando di un argomento forte. Ma c’è un’altra cosa che vorrei sottolineare riguardo ai sentimenti. Rivedendo il tempo della malattia di Ettore, mi tornarono alla mente non soltanto gli episodi di malasanità che fecero da start alla scrittura, ma anche le persone meravigliose incontrate durante il non facile percorso. La signora Jecher e la sua dedizione verso il marito, sister Olivia con la sua stazza di bontà e d’ironia, il gruppetto di signore anziane che si allontanavano brevemente dai loro ammalati gravi per venire a salutare Ettore e lo incoraggiavano e lo rincuoravano, come fosse un figlio. La solidarietà tra gli ammalati, tra i parenti degli ammalati che fanno il tifo l’uno per l’altro quando li conducono a fare esami. Genny, il pony-express della messimpiega, così spensierato, così sfortunato. Ed altri. Uomini e donne, di cui ho parlato e che costituiscono il valore aggiunto nella malattia. Anche per questo Pazienti smarriti è un libro di sentimenti.

 

Il parallelo tra il protagonista Ettore e l’eroe omerico è una semplice questione di omonimia o allude ad affinità più profonde?
Non è soltanto una questione di omonimia. Se il protagonista di Pazienti Smarriti si fosse chiamato Achille, non l’avrei accostato all’Achille omerico, perché quest’ultimo era borioso e antipatico. Le affinità tra Ettore, mio fratello, ed Ettore dell’Iliade sono diverse e significative. Innanzitutto il nome, che deriva dal greco – indica colui che tiene saldo, che protegge – e identifica un ideale. L’ideale del difensore valoroso e incorruttibile. Ettore, principe troiano, resistette per dieci anni all’assedio della sua città nella strenua difesa della famiglia e del popolo. Non combatté per la gloria, per l’affermazione di se stesso, come il nemico Achille. Ettore, protagonista del romanzo, difese sempre i valori in cui credeva fermamente: la famiglia, la casa, il lavoro. Tante furono le battaglie affrontate senza mai abiurare ai propri principi. Un guerriero, senza elmo e senza spada, ma coraggioso e umano come il personaggio omerico. La solitudine. E’ solo Ettore, nello scontro finale sotto le mura di Troia. Neppure gli dèi lo proteggono. Nelle sue vene non scorre sangue divino: non è invulnerabile come Achille. Solo è anche il malato nel suo letto, solo con le angosce, le incertezze, la sensazione di pericolo e l’ansia. Il guerriero troiano e il mio guerriero sono mortali e non possono sfuggire al loro infelice destino. La fine dunque li accomuna. C’è un punto del romanzo in cui le due figure si fondono. Verso l’epilogo, l’io narrante esorta, con un’espressione mutuata dall’Iliade, Ettore ad alzarsi: “In piedi, in piedi, principe troiano!”. La simbiosi tra le due figure in quel momento della narrazione è assoluta.
Nel corso dei capitoli si ha modo di fare degli incontri letterari inaspettati (Hemingway, Ungaretti, Beckett, solo per citarne alcuni). Vuole essere un omaggio ai tuoi autori preferiti?
Ho imparato a leggere a cinque anni, quindi prima di andare a scuola, e non mi sono più fermata. La lettura per me è un piacere costante e irrinunciabile. Talvolta mi immedesimo talmente nella storia da continuare a pensare ai personaggi anche dopo aver chiuso il libro. Quest’estate ho avuto la fortuna di trovare a Cuba, su una bancarella, un’edizione de Il vecchio e il mare datata 1962, in lingua spagnola. Amo i libri, anche come oggetti, perfino quando sono scritti in una lingua che non conosco. Ho premesso di essere una lettrice onnivora, però delle preferenze naturalmente ci sono. Mi piacciono gli autori latino-americani, in particolare Gabriel García Márquez, Isabelle Allende, Vargas Llosa, Cortázar, esponenti di primo piano del filone del “realismo magico”. Quello che mi affascina degli universi che raccontano, è la coesistenza di personaggi umani con altri surreali. Peccato che il filone stia ormai esaurendosi, in quanto gli scrittori latino-americani di nuova generazione non si staccano dalla realtà, ma la raccontano così com’è.
Per te che hai lavorato per trent’anni negli aridi ambienti bancari, che valore ha la letteratura?
Beh, sai, il diavolo non è sempre così brutto come lo si dipinge. Per dire che l’ambiente bancario non è più insensibile di tanti altri, poi naturalmente dipende da come ci si pone nei confronti del lavoro. Io non l’ho mai vissuto come una frustrazione. Per due terzi dell’attività lavorativa sono stata in agenzia, in prima linea, come si diceva, e il contatto umano c’era e come! Il lavoro di sportello mi ha fornito diversi spunti per i miei racconti, con tutta la varia umanità che entrava e usciva. Anche quando ho lavorato in città diverse dalla mia, ho colto l’occasione per conoscere i luoghi dove mi trovavo a vivere. Per me quelle esperienze sono state un arricchimento. A Vicenza, stupenda città d’arte, un collega che ogni sera “puntualmente” si recava al Casinò di Venezia m’ispirò il racconto Rosso e Nero. Tuttavia, e me ne rammarico, la banca mi ha sottratto alla scrittura. La lettura non la trascuravo, leggevo sempre, ma scrivere in maniera continuativa mi era impossibile. Facevo salti mortali – perché, ovviamente, oltre il lavoro c’era tutto il resto – anche per comprarmi un paio di calze, figuriamoci scrivere!
Ricordi il primo approccio con la scrittura?
Ricordo perfettamente. Frequentavo la terza media. La scuola partecipò ad un’iniziativa del Ministero sull’integrazione europea. Era già iniziato il percorso verso l’Europa unita e la moneta unica. Il tema assegnato agli studenti verteva sul cammino comune e irreversibile dei Paesi europei che avrebbe portato, attraverso varie tappe, ai cambiamenti epocali che abbiamo poi vissuto. Scrissi sulla solidarietà e la convivenza civile tra i popoli, sull’abbattimento delle barriere sociali, sulla necessità di superare i contrapposti nazionalismi. Credevo di essere andata fuori tema, invece vinsi il primo premio.
Un consiglio ai giovanissimi che aspirano a pubblicare.
Anna, sono ancora troppo giovane per dare consigli! Uno, in generale, però lo do volentieri: non abbandonate MAI le vostre passioni, perché prima o poi ritornano.
 
 
 

Link > Robin Edizioni

Fotografie di Maria Teresa Gargiulo

indietro