Giovani Scrittori Crescono

La terza puntata della rubrica dedicata alla Giuria del Premio Perelà, accende i riflettori su Francesca de Lena e Eduardo Savarese, entrambi allievi de Lalineascritta, il laboratorio diretto da Antonella Cilento

Lettrice di racconti molto più che di romanzi, Francesca de Lena è uno spirito libero che considera la scrittura il vero punto fermo della sua vita. Le Nine stories di Salinger, i Sillabari di Goffredo Parise, i racconti di Katherine Mansfield e quelli di Richard Yates sono i suoi testi di riferimento. Specializzata nella letteratura per l’infanzia, sta per debuttare con Mamma ho scritto un libro, laboratorio per scrittori dagli 8 ai 12 anni.

Come nasce la scelta di dedicarsi alla letteratura prodotta dai bambini?
La grande Flannery O’Connor disse una volta che per scrivere qualcosa basta essere sopravvissuti alla propria infanzia. E questo lo si può capire solo da adulti. Attraverso la scrittura si può insegnare ai bambini a stare nelle cose, essere all’erta, immaginare, fantasticare. Sono troppo adulti i bambini che ci sono in giro, troppo ancorati alla realtà. Parlano dei problemi dell’esistenza prima ancora di aver affrontato un “cattivo” nel buio della loro stanza. Non hanno più a che fare con gli incubi, con le scoperte, con la noia e con le mucche a strisce colorate invece che a macchie bianche e nere. Hanno bisogno di riconquistare la loro dimensione infantile. E noi abbiamo bisogno di leggere quello che hanno da dire.
Il genere delle short stories, che lei predilige, ha qualcosa in più o in meno rispetto al romanzo?
Meno tempo. Meno spazio. Meno modo di farci affezionare ai personaggi, di farci entrare nella storia, di tenerci incollati alla pagina. Ma un buon racconto è un’implosione. È un qui e ora, a volte dura così poco che non c’è neanche il tempo di guardare fuori dalla finestra ed essere contaminati. Non c’è niente più di un buon racconto in grado di farci intravedere la verità, che è verità per ognuno di noi ed universale allo stesso tempo. È questo quello che fa la letteratura.
Il racconto che vorrebbe pubblicare.
Quello che mi risolve la vita. In cui mettere tutto dentro e poi tenere a distanza in modo che niente possa ricatapultare fuori e venirmi a cercare. Ma non esiste un racconto così. Peccato!
Perché si è iscritta a una scuola di scrittura?
Lalineascritta prometteva di non vendere talento, ma di insegnare a non avere paura di quello che si scrive. A prendersi in giro quando ce n’è bisogno e a prendersi sul serio quando è il caso. Ho imparato a non pretendere sempre il meglio o non lo avrei ottenuto. A fidarmi di quello che avevo da dire e ad allenarmi a dirlo. Ho trovato la mia voce e prima non l’avevo mai conosciuta. Mi ha aiutato a saper riconoscere la buona letteratura e a non poterne più fare a meno, e non si può imparare a scrivere se prima non si impara a leggere. Ho imparato cos’è che fa una storia e che la trasformazione e il cambiamento, sulla pagina, e non solo lì, sono indispensabili.

In Giochi di sassi Francesca tratta il tema della violenza tra le pareti domestiche. Lo fa partendo da lontano, con una prima sezione che si sviluppa su un andamento cantilenante perfettamente sincronizzato  con il “gioco della campana”. Solo nella seconda parte la trama, mettendo in crisi l’orizzonte d’attesa, svela al lettore tutta la tragicità che segna la storia personale della giovanissima protagonista.
Deve prendere il tre.
È di nuovo il suo turno, ci ha già provato due volte.
Il tre è proprio difficile.
Lancia il sasso con poca forza, altrimenti esce fuori dal quadrato.
Tre. Finalmente.
Alza la gamba sinistra, meglio saltare con l’altra, che alla sinistra le si sciolgono sempre i lacci.
Salta con la destra nella casella numero uno. Uno.
Un altro salto nella casella numero due. Due. [
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Magistrato dal 2004, Eduardo Savarese si è fatto notare come scrittore in più di un premio letterario. Ha pubblicato alcuni racconti in antologie collettive e attualmente conduce L’ora fatale!, laboratorio sull’opera lirica italiana come fonte di narrazione. Tra i classici di cui si sente debitore, Dostoevskij e Tolstoj, Proust e Mann, Rigoni Stern e Pavese. Della letteratura più recente, invece, apprezza Alice Munro e Amitav Gosh. 

 Lei ha pubblicato diversi racconti in antologie collettive ma il suo romanzo L’amore assente, che molto è stato apprezzato dalla giuria del Premio Calvino, è ancora inedito. Che idea si è fatto dell’editoria?
L’iter del mio romanzo nelle case editrici non è affatto facile. Ma spesso capita che i cammini siano accidentati. Ho idee confuse, forse perché è lo stato generale ad essere piuttosto confusionario, ma sarà un’impressione, parziale e ingenua, di un esordiente. Direi che ci sono lettori e case editrici attenti nel giudizio. Ma manca il coraggio, credo, il coraggio di affrontare un percorso formativo con gli esordienti, le cui idee narrative e il cui stile sembrino sicuri, non occasionali, densi di significato. Mi sembra invece che si cerchino prodotti già finiti e, spesso, etichettabili. Probabilmente, è questo un momento generale, in Italia, di scarsa propensione a scelte coraggiose.


Si sente più scrittore o narratore?
Al momento, narratore. Voglio raccontare storie, le vite degli altri, il mistero dell’esistenza, costruire intrecci complessi che siano rappresentativi di relazioni umane. Però è una narrazione dentro la scrittura, dentro un linguaggio preciso, che combatte le resistenze, le insufficienze della parola, ne sonda il potente effetto creativo.  
Dove sta andando, a suo parere, la letteratura italiana?
Credo che la letteratura italiana sia ricca di scrittura significativa, ad oggi. Ma non coincide, spesso, con quella di successo. Il rischio della frammentazione e moltiplicazione di libri di ogni genere, livello e qualità, disperde l’attenzione sui libri più significativi, è sì un’opportunità accresciuta di sviluppo della lettura, ma produce un effetto-inceneritore che vanifica opere letterarie autentiche. Senza un adeguato supporto delle case editrici e della critica letteraria, potremmo involgerci nella diffusione di libri-testimonianza scritti da politici, uomini dello spettacolo, calciatori, magistrati, giornalisti ecc., bollati sprezzantemente come commerciali dalla critica chic o osannati come reportage di sublime coraggio, così come nella promozione elitaria di libri ‘confezionati’ abilmente, da un punto di vista stilistico, ma dove purtroppo abitano personaggi e vite senza sangue.
Perché si è iscritto a una scuola di scrittura?
Cominciai a scrivere poesie nell’anno della laurea. Un amico mi disse che c’erano immagini narrative forti e mi consigliò i laboratori diretti da Antonella Cilento. Da allora non ho smesso di scrivere. La scrittura è diventata un foro interno dove mi raccolgo, nel silenzio, per mettere in gioco ciò che è necessario, urgente creare e consegnare agli altri. La scuola di scrittura è il luogo dove raccogliersi, partorire parole e sentire gli altri cosa ne pensano, in termini di visibilità e credibilità di ciò che realizzi. Per me, è stata un’esperienza, umana e professionale, importantissima, insostituibile.
Sacro e profano sono i registri su cui Eduardo struttura Ostie consacrate, racconto che ha per protagonisti la badante Liudmila e il deforme Celio. Entrambi relegati in posizioni sociali marginali, riescono tuttavia a non precludersi i piaceri della vita, primo fra tutti il sesso. L’esito è un continuo susseguirsi di situazioni comiche e raccapriccianti.
È passato tanto tempo da che Liudmila ha visto un uomo nudo, uno funzionante. In provincia di Brescia, durante il primo soggiorno clandestino in Italia, c’era stato un vecchio con gli occhi vuoti che non si alzava più dal letto, e faceva le piaghe.
Si aspettava, doveva confessarselo, qualcosa di meglio, più virilità. Ma i pochi peli sparsi sopra lo sterno di Celio, diradati sulle cosce troppo grasse come un campo di calcio spennato, le parvero quasi rassicuranti. Così come i capezzoli spropositati, che la colpirono, più che per un attributo insolito per un maschio, come qualcosa di riconoscibile e condiviso.  [
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