Raul Montanari, un esordiente di talento

Intervista all'autore bergamasco che nel suo ultimo romanzo seziona il mondo degli scrittori - e degli aspiranti tali - svelandone le linee d'ombra e la tormentata psicologia

di Anna Petrazzuolo

 

Cominciamo dal titolo: che valore ha l’atto dell’esordire?
Fondamentale. Non si esordisce solo nella letteratura, ma si esordisce nella vita, e questo esordio non è uno soltanto. È come una primavera, un’alba che nelle nostre esistenze arriva diverse volte, in coincidenza con grandi cambiamenti nel lavoro, negli affetti, nel rapporto che abbiamo con noi stessi e col mondo. Non a caso nel libro c’è un’esordiente letteraria, ed è la giovane scrittrice Veronica Markus; ma in copertina, sotto il titolo, non è ritratta lei bensì il protagonista maschile, Livio Aragona, uno scrittore cinquantenne che però si trova in una stagione di transizione esistenziale che vale, appunto, un nuovo esordio.


Thriller psicologico ma anche romanzo molto divertente: in una narrazione, quanto è importante la trama e quanto lo stile?
Scusami, ma il thriller psicologico è un’altra cosa. È un thriller – appunto – in cui viene dato molto spazio alle reazioni interiori dei personaggi rispetto all’azione. L’esordiente non è un thriller, casomai è quello che, come diremo dopo, la critica ha chiamato post-noir: un romanzo psicologico (o semplicemente un romanzo) in cui è presente una tensione particolare, che rende la lettura più avvincente. Ma si sente che rispetto a un thriller l’attenzione dell’autore e del lettore non sta nelle svolte violente o nei misteri della vicenda narrata. Per risponderti: per un narratore lo stile è al servizio della trama. La storia viene prima di tutto.

Questo è il più autobiografico dei tuoi libri: ormai giochi a carte scoperte?
Ti parrà strano, ma questo libro è molto autobiografico per quanto riguarda gli aspetti più esteriori del protagonista, che in effetti fa il mio lavoro e si trova in una serie di situazioni che ho vissuto anch’io. Come carattere, però, mi sono messo a nudo di più in altri romanzi, in particolare nel precedente Strane cose, domani.
Livio Aragona, il protagonista, non riesce a liberarsi del marchio di scrittore giallista. A che punto è, invece, la tua battaglia in nome del post-noir?
A ottimo punto, perché i critici più sensibili hanno accettato questa definizione. Per esempio Paccagnini sul Corriere della Sera e Pent su TTL. In libreria, invece, succede ancora che mi mettano fra i giallisti… O peggio: per esempio in certe grandi librerie come le Feltrinelli, i miei romanzi si possono trovare in tre scaffali diversi: narrativa italiana, gialli e pure tascabili! Per non parlare dello scaffale poesia e delle traduzioni.
Una curiosità che riguarda il personaggio di Veronica, la scrittrice di cui Livio si innamora e che poi diventerà la sua antagonista: c’è qualcosa in cui vorresti somigliarle?
Be’, l’età. Che vuole dire soprattutto che mi piacerebbe tornare a quando la mia scrittura mi costava meno dolore. O piuttosto il dolore era lo stesso, perché il dolore e non la fatica è il tratto distintivo dell’atto di scrivere quando lo si fa sul serio, scendendo negli abissi; ma allora lo sopportavo meglio.
Tra i diversi livelli di lettura possibili, L’esordiente è anche un compendio di precetti e dritte per chi si cimenta nella stesura di un testo narrativo. Vuole essere un omaggio agli allievi dei tuoi corsi?
Sono d’accordo con la tua definizione. Direi che più che agli allievi dei corsi è rivolto in generale a chiunque abbia il sogno di pubblicare un libro. Mi ha fatto molto piacere leggere in certe recensioni che questo romanzo dovrebbe essere una lettura obbligatoria per chi sogna di diventare scrittore.
Come riconosci un talento letterario?
Ci sono due tipi di talento, ovvero di allievi nei miei corsi – escludendo ovviamente i casi in cui il talento non esiste, e sono la maggioranza! Certi hanno il dono da subito: il primo racconto che mi consegnano perché lo corregga ha già una forza di scrittura e di rappresentazione narrativa, casomai manca l’artigianato, la furbizia che in molti casi aiuta a fare la differenza. Invece altri all’inizio scrivono male, spesso perché cercano di imitare autori che amano leggere, e che li portano a esprimersi in uno stile che in realtà non è quello giusto per loro. È un errore molto ricorrente e ti richiede una sensibilità particolare perché devi “sentire” qual è l’origine di questa influenza sbagliata, di cui l’allievo può non essere cosciente... spesso sono autori americani come Bukowski (imitatissimo perché amatissimo) e Bret Easton Ellis (idem). Qui il lavoro è più difficile, ma una volta che il giovane autore ha trovato la sua vera voce, si scatena. Sono anche le situazioni più gratificanti per me come docente.
Compromessi, frustrazioni, invidie dei colleghi: la tua descrizione del mondo degli scrittori è tutt’altro che edificante. Eppure quella dello scrittore resta una delle professioni più ambite. Secondo te, perché?
Perché la narrativa è la più semantica delle arti. È quella con cui puoi esprimere con la maggiore libertà la tua visione del mondo, te stesso. Noi godiamo di tutte le arti, andiamo in estasi davanti a certi dipinti, ci facciamo accompagnare dalla musica a volte tutto il giorno (io faccio così, per esempio), ci emozioniamo con il cinema, ma le cose importanti le impariamo dai libri. La verità è nei libri, il mondo che condividiamo è costruito anzitutto su mattoni che sono pagine di libri. Per questo non tanto la professione ma, direi, lo status di scrittore rimane così prestigioso. Per fortuna.
Editoria e letteratura corrono sullo stesso binario?
Sicuramente no. Un editore è un imprenditore, anche se di tipo speciale, e non può permettersi di sacrificare alla letteratura questo aspetto essenziale della propria attività. Gli editori più accorti di solito lavorano così: cercano di avere in catalogo alcuni autori che garantiscano buoni introiti, magari a prezzo di una bassa qualità, e per fare ricerca letteraria lasciano spazio ad altri nomi.
Qual è il tuo rapporto con gli editori?
Il rapporto personale con i direttori editoriali è molto buono, e in certi casi si può parlare non solo di stima ma di amicizia e affetto, come per esempio con Alberto Rollo della Feltrinelli, Oliviero Ponte di Pino della Garzanti e naturalmente con il mio editor in Baldini Castoldi Dalai, Francesco Colombo. Per questo, fra l’altro, non ho bisogno di un agente: gli editori sanno perfettamente quello che scrivo, ad alcuni interesso e ad altri no.
Un’anticipazione sul prossimo libro?
Il prossimo libro, che uscirà il 12 ottobre, è una curiosa divagazione teologica intitolata Il Cristo Zen. Da vent’anni lo volevo scrivere, era un vecchio progetto concordato con Luciano Foa dell’Adelphi, poi accantonato. 
In due parole: dopo un’introduzione in cui spiego cos’è lo Zen e che rapporti ha con il cristianesimo, commento una quarantina di brani evangelici accoppiati con altrettanti aneddoti della letteratura zen, mostrando quanto la personalità e la predicazione di Gesù siano sorprendentemente vicine a quelle di questi grandi maestri orientali. È un saggio, ma scritto come un romanzo. 
Grazie. E buon lavoro!
Grazie a te e a tutti voi!


 

 
 
 
 
 
 

 

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